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 TAM TAM GHIONI
 

Libro: TAM TAM GHIONI in collaborazione
con Giovanni di Marzinis - Mario Tellini
Grafica Federico Editrice - Brescia  1° Edizione 1971
 

 

SOGNI E SOFFERENZE

 
L'UOMO SOLO

Solo
mi ritrovai nella fonda
notte
e brillavano le stelle
gelide
inarrivabili e lontane
perdute
come anime umane
baluginanti
nel cielo immane
e l'urlo mi salì
forte
spasimo dolore malasorte
poichè ero solo solo
abbandonato
egualmente alla vita o alla morte
come un burattino
anonimo
nella confusa sorte
e allora urlai folle urlai
come un cane nella lunga paurosa
notte.

M.T.


 

Sono considerato un testardo e in realtà lo sono ma ciò è dovuto in buona parte alle sofferenze che ho incontrato durante la mia vita, vissuta intensamente: ho conosciuto la fame, le umiliazioni, le privazioni. Da ragazzino per aiutare in qualche maniera anche modesta i miei genitori andavo per torrenti e fossi gelati a pescare pesci e rane e poi per i campi avari già setacciati profondamente dai contadini e dalle mandrie per vedere se eran rimaste patate, rape, cicorie; poi, più avanti, ho fatto lavori dove corpo e muscoli sono impegnati sino allo spasimo e a volte mi pareva di non riuscire più a sopportare la  fatica; ma io testardo tiravo aventi e sognavo. Sì sognavo; a me piace guardare le cose del mondo e non posso rimanere insensibile davanti a un bambino mentre ruzza, a un tramonto dorato e di fiamma, ai fiori che palpitano di colori, alle stelle che vibrano alte e perdute nel cielo infinito.....

A Roma poi ho fatto il cavatore di pietra, lo scalpellino, ho usato la dinamite facendomi assordare dalle esplosioni e infine usufruendo del mio corpo collaudato il generico acrobata cinematografico e naturalmente anche il pittore, l'artista bohémien...

Forse è in quel periodo che ho iniziato a sognare un qualcosa di diverso dalla solita routine.

Lavorando in vari film sono venuto a contatto con quel falso, gretto mondo dello spettacolo, materialista ed edonista, amorale e politicamente estremista ma in genere solo per interesse, posa, soluzione pseudo intelletualistica di maniera; ma nel contempo frequentavo, nei giorni liberi e la sera, gli artisti della capitale: italiani e stranieri, dotati di talento o insignificanti.. pittori, scultori, poeti, sognatori, utopisti tutti accomunati dalla grande passione che li bruciava interiormente e naturalmente tutti avevano in comune la quasi assoluta mancanza di mezzi economici e molte volte il pasto consisteva in una fetta di pane raffermo reso più odoroso con una strofinatina di aglio; nei giorni di benessere maggiore faceva la comparsa pane, mortadella, pancetta e magari qualche sorsata di vino; ma naturalmente le discussioni su ciò che un vero artista deve saper esprimere eran vive, polemiche, pregne di contenuto filosofico ed estetico e i riferimenti all'impressionismo, espressionismo, privitismo, dadaismo, surrealismo, futurismo, cubismo, astrattismo e naïf erano d'obbligo.

Tra gli artisti faceva spicco un tipo singolare, poeta, suonatore molto bravo di tromba, utopista e sognatore; americano si dichiarava però cittadino del mondo, anzi dell'universo, e non poneva limiti al potere della mente umana e sosteneva che l'arte diventa tale solamente quando l'uomo che la rappresenta ha sofferto molto e profondamente. "Sogna amico Barbarossa - mi diceva in vena di confidenze - ma ricorda di far sognare la gente con te, se vuoi essere un artista. E abbi coraggio, come un eroe di guerra, abbi fede come un santo che cammini nella via di Dio; soffri, soffri per le condizioni quotidiane della vita e per le tue concezioni artistiche e così potrai spirituallizarti e vincere sicuramente ogni ostacolo..."  Questo strano personaggio viveva di elemosina suonando per le osterie e quando riceveva il suo solito assegno dall'America si recava al Tevere e lo stracciava gettandolo nelle acque senza rimpianto.

Ed è in quelle condizioni di estremo disagio che ho poco alla volta maturato il mio intimo modo di sentire artistico affinando la mia sensibilità di pittore cercando di cogliere l'essenza della vita, dei momenti umani, di stringere qualcosa che urgeva dentro di me e mi pressava. Ho avuto in quei giorni di fame e di miseria l'intuizione di costruire una pittura veloce, svelta, essenziale, un pò naïf con colori base, staccata dalla consuetudine accademica.

Era il 1960; nel 1957 col lancio dello Sputnik iniziò la gara spaziale tra Russia e America; una gara tecnologica volta al futuro per la quale però ho sentito immediatamente una avversione e una ostilità fortissima. Certo, l'uomo è un fenomeno complesso, ha problemi di vita e di morte, biologici e filosofici, ha esigenze , necessità, slanci, generosità, meschinità, odio, amore, illusioni; l'uomo è insieme la più perfetta e la più imperfetta macchina operante nell'universo ma rimane sempre, per me, il vero fulcro motore d'ogni cosa; l'uomo è un accanito fanatico sognatore, un costruttore di miti e nel suo perenne stato d'inferiorità dimensionale e di inquietudine vuol conquistare mete sempre più ambite e difficili. Sì, Wernher von Braun è un sognatore e lo è anche l'uomo che si lascia lanciare nello spazio usufruendo di un mezzo nato da uno sforzo collettivo immane, vero mostro moderno puramente tecnico; ma il sogno di questi uomini spezza a mio avviso una dimensione umana vera e propria o almeno la coarta facendone forse inconsciamente una macchina sì d'alto valore scientifico ma però di basso valore spirituale e morale. Infatti nei voli spaziali ogni cosa è prevista, calcolata, provata, riprovata, memorializzata dai cervelli elettronici e così l'uomo diventa semplicemente un robot, una macchina al servizio di altre macchine e poco alla volta finisce per trovarsi prigioniero senza scampo di un meccanismo da lui stesso voluto...

Naturalmente non voglio negare il progresso tecnologico dovuto ai voli spaziali; ma io questo progresso esasperatamente tecnologico lo temo come riduttore delle vie spirituali del resto già fagocitate lentamente dal mondo moderno; altra cosa erano i sogni e i progetti di Hermann Ganswindt, Konstantin Eduardovic Ziolkowsky, Robert Hutchins Goddard, Hermann Oberth, Max Valier, Fritz von Opel, Rolf Engel, Rudolf Nebel, Klaus Riedel, Johannes Winkler, Eugen Sänger, Helmut von Zborowski, Irene Bredt, Werner Singelmann e Wernher von Braun..; altra cosa nei confronti delle attuali straordinarie conquiste spaziali e riferendomi al gruppo di studiosi tedeschi posso considerarli dei sognatori sino alle loro realizzazioni belliche. In un certo qual modo posso dire d'essere un continuatore delle teorie di Jean Jacques Rousseau, il philosophe ginevrino, secondo le quali "l'uomo è per natura buono, ed è reso cattivo soltanto dalle istituzioni" considerando inoltre negative agli effetti di benefici all'umanità arte e scienza.

Ed è stato in quel periodo che è nata in me l'idea di prestarmi alla fondazione di un gruppo artistico a carattere internazionale il quale potesse lanciare un messaggio di fede umana, di una fusione spirituale nell'arte come momento di superamento del tecnicismo fine a se stesso e delle arbitrarie barriere politiche, sociali, di razza e di nazionalità; pensavo e penso ancora che possa esser l'Arte il veicolo primo per migliorare il mondo.. forse la mia è una concezione utopistica, da sognatore, una pura illusione ma che comunque non può fare del male. Rimaneva da sceglier il mezzo per render nota l'idea: un giornale d'Arte, un manifesto collettivo, un messaggio alle nazioni e agli uomini politici? Non ero convinto, ci voleva qualcosa di più forte, di maggior impegno, qualcosa che superasse la facile contestazione politica affermando una contestazione etica. E così mentre il mondo stava attraversando crisi su crisi avanzando però enormemente sulla strada del tecnicismo, malgrado la fame e la miseria ancora diffusa, incominciai a pensare ad una impresa particolare: cioè compiere un lungo viaggio in Africa con un mezzo insolito e apparentemente insufficiente. Un viaggio naturalmente difficile ma durante il quale avrei potuto portare il mio messaggio di fede e, alla mia maniera, protestare contro l'esasperazione tecnicistica: pensavo che il mio sacrificio sarebbe stato utile all'uomo o, in ultima analisi, a me stesso. E presi spunto dall'immortale opera di Verdi per dare una sigla alla mia unione artistica: AIDA cioè ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEGLI ARTISTI.

Poi lascia l'idea dentro di me a lievitare; il tempo l'avrebbe resa valida o meno.

Ma questo viaggio ideale non si staccava dalla mai mente e anzi prendeva maggior forza; pensai anche nel contempo di compiere un dovuto pellegrinaggio visitando i molti luoghi di sepoltura dei Caduti Italiani in terra d'Africa.

Ritornato a Brescia per stare più vicino a miei genitori conobbi Mario Tellini col quale strinsi immediatamente amicizia; attore e stunt-man mi fece lavorare con lui in una serie di telefilm d'avventura per la televisione francese, poi mi presentò ad Angio Zane il quale mi utilizzò nei suoi teatri di Salò in numerosi Caroselli.

Ben presto presi a parlare del mio progetto con Mario Tellini, ma l'amico mi sconsigliò, discusse, s'arrabbiò, ma la mia decisione era irrevocabile: Africa. Era giunto intanto il 1966 e incominciai a stendere i dettagli del mio avventuroso viaggio; Mario Tellini pensò di farmi avere aiuti economici tramite determinate ditte ma io rifiutai nettamente poiché volevo farcela con le mie sole forze e traendo i mezzi di sostentamento dalla pittura; da parte dei colleghi pittori non ebbi molta comprensione ma ciò m'importava relativamente. Comunque mi furono moralmente e affettuosamente vicini gli amici Elio Barucco, giornalista; Carmelo Crisafulli, pittore; Giulio Mottinelli, pittore; Mario Tellini, attore stunt-man. Doloroso naturalmente dire ai miei genitori della decisione maturata; ma alle argomentazioni che accampai risposero col loro grande affetto assegnandomi fiducia e stima, anzi poi orgogliosi che un loro figlio andasse in Africa a gettare un messaggio d'amore. In quel periodo la stampa scoprì le mie intenzioni e mi dedicò qualche colonna di piombo.

Incominciai a sbrigare le innumerevoli pratiche burocratiche le quali non risultarono a volte di semplice soluzione ma trovai affettuosi aiuti ovunque.

E infine scelsi il mio mezzo di trasporto: un motofurgone Gerosa  di 48 c.c. e l'idea di compiere un lungo viaggio attraverso l'Africa usando un mezzo di trasporto minimo ed economico è nata in me gradualmente, poco alla volta, direi quasi insensibilmente gonfiandosi nella mente e nello spirito. L'Africa ha sempre costituito una attrattiva formidabile per l'uomo; e certamente oggi che la conquista della luna ha avuto successo, un viaggio in Africa anche se compiuto con un mezzo insolito e non appropriato può apparire modesto e senza rilevo e forse di nessuna attualità, ma ciò non è vero assolutamente e lo affermo a costo d'esser polemico; un conto è andare in Africa per compiere un bel safari con mezzi economici e di trasporto adeguati e altra cosa è partire avventurosamente con poche migliaia di lire guidando un piccolo mezzo meccanico di soli 48 cc. Per questo ritengo che il mio viaggio africano assume il valore soggettivo del simbolo umano e cioè dell'uomo posto, lui, al centro dell'universo in maniera titanica. Ricordo le previsioni generali prima della partenza: tutti pensavano che un 48 cc. dotato ovviamente di bassissima potenza mi avrebbe quasi subito appiedato fermando il mio sogno un pò folle. E invece ho compiuto  interamente il mio raid di circa 30.000 chilometri durato 563 giorni collaudando così le mie idee e il mio mezzo meccanico.

Nel febbraio del 1966 ero pronto e il giorno 22 partii con la foga di un novello esploratore; avevo in tasca 40.000 lire ma mi accompagnava il tenero affettuoso abbraccio di mia madre  che non avrei  più rivista.

Il mio caro amico Mario Tellini pochi istanti prima di partire mi disse: "Quando tornerai ti chiameremo TAM TAM GHIONI..."

 


Fotografia di Foto Gallo, Brescia

 

Gino Ghioni assieme ai genitori per i quali ha sempre nutrito affetto e rispetto.

 

Fotografia dello Studio Dabbrescia, Milano.

 
Ondastudios, Salò: durante una pausa di lavorazione dei Caroselli Galbani riposano il cantante-attore Dorelli, il figlio Gianluca e Gino Ghioni.
 

Ritratto di Angio Zane, Salò

 
Ondastudios, Salò: Gino Ghioni è impegnato in un Carosello Galbani.
 

Fotografia di Angio Zane, Salò

 
Ondastudios, Salò: si girano Caroselli western. Da sinistra: Mario Tellini, Gino Ghioni, Giulio Mottinelli.
 

Ritratto di Mario Tellini, Brescia

 
Cogito ergo sum: pensieri di re.

IL VIAGGIO

 
ADDIO MONDO

Addio mondo mio, addio,
ti perdo o ti ritrovo, morendo?
Sei forse vuoto e fatuo
come gli affanosi sogni?
bello come un rosso tramonto
che pare un fuoco?
Dimmi, mondo mio, cosa sei?
Realmente cosa sei?
Gioia?
Dolore?
Ansia?
Vita?
Illusione?
Amore?
O morte?

M.T.


 

Era un giorno del febbraio 1967; un giorno come tanti altri, freddo e pungente; il giorno in cui iniziava concretamente l'avventura del mio viaggio. Partivo alla ricerca di un mondo nuovo ma sognato e, forse, idealizzato; partivo alla scoperta viva e vitale della dimensione umana.

Mio unico compagno un cane, anzi una cagna, Tori, di pura razza Doberman; un cucciolone affettuosissimo e sempre propenso al gioco, come i bambini.

Alla partenza il mio cuore scoppiava tanto ero pieno d'emozioni e sentimenti. Anche se un pallido sole s'era affacciato nel cielo la neve mi accompagnò fin quasi alle soglie di Genova. Da Genova proseguii lungo la costa ligure, ed a Ventimiglia incontrai i fratelli Canali che erano diretti con un fuoribordo da esposizione alla Fiera Internazionale di Barcellona. Gli stessi, cortesissimi, mi invitarono a raggiungerli colà; dopo aver attraversato la Francia e varcato i Pirenei giunsi qualche giorno più tardi in Spagna e vanni ricevuto oltre che dai fratelli Canali anche dal Direttore  dell'Esposizione che mi intervistò per il giornale locale che egli dirigeva.

Interessati dal mio viaggio ed un pò incuriositi mi chiesero da dove attingessi i fondi necessari. Risposi che essendo pittore contavo sui miei quadri; ne vollero esaminare alcuni e mi offrirono degli aiuti sufficienti per continuare il viaggio attraverso la Spagna fino allo stretto di Gibilterra dove mi imbarcai per Tangeri. Sul traghetto, volgendo lo sguardo alle coste Europee che si allontanavano, io sentivo dentro di me vivissimo il senso el distacco da tutto quello che era stato il mio ambiente; e mi mi accostavo all'Africa con un senso di sgomento, quasi arrivassi in un mondo nuovo e sconosciuto. Mi avvicinavo e nel mi cuore si agitavano mille sentimenti e mille emozioni: sentivo che incominciava la parte più difficile del mio viaggio; arrivai verso le 10,30 a Tangeri. Appena sbarcato ebbi la fortuna di imbattermi in un giovane artista locale che aveva in corso una esposizione al Casinò Municipale. Questo artista marocchino era già stato in Italia e ne parlava abbastanza bene la lingua: da lui ebbi anche alcuni consigli sul proseguimento del viaggio e, sempre per mezzo suo, potei avvicinare un italiano che gestiva un ristorante dove, verso sera, mentre cenavo, fui avvicinato da giornalisti che mi intervistarono. Per la notte trovai ospitalità in una autorimessa; questo non per mancanza di cortesia da parte dei miei ospiti, ma perché preferivo dormire vicino al mio mezzo; così feci pure in seguito. Altrove trovai ricovero generoso e gradito presso i Missionari. Anche il vitto cercai di cavarmela sempre da solo aiutato dal fatto che, essendo vegetariano, mi cibavo soprattutto di frutta e verdura. Per l'abbigliamento non trovai molte difficoltà data la stagione; infatti il sole era caldo mitigato però da un vento sferzante.
Dopo la sosta di Tangeri proseguii verso il sud facendo delle brevi escursioni nell'interno marocchino. Le tappe principali furono Casablanca e Safi. Fui sempre seguito simpaticamente dalla stampa del luogo e tra i numerosi giornali locali cito particolarmente "Le Petit Marocain" che per la lunghezza della mia barba mi soprannominò affettuosamente "Garibaldi". Durante il mio soggiorno tenni delle mostre con un discreto successo il che mi permise di raggranellare mezzi finanziari per il proseguimento del viaggio.

Sino dall'inizio del viaggio trovai strade non sempre in buone condizioni; alle volte erano delle vere e proprie piste. Il 15 aprile giunsi a Dakar nel Senegal e qui ebbi i primi contatti con l'Africa nera. Fui amabilmente accolto dai frati a St. Joseph de Medina i quali mi presentarono al giornale locale "Dakar Matin" per l'ormai tradizionale intervista. Tengo qui a sottolineare la sempre cortese ospitalità ricevuta dai Missionari che mi furono prodighi anche di preziosi consigli per i miei successivi spostamenti. Anche le autorità diplomatiche italiane, dopo aver superato un'iniziale diffidenza dovuta forse al mio abbigliamento o al mio insolito mezzo di locomozione ed anche perché non sempre riuscivano a capire subito il motivo ideale che mi spingeva ad intraprendere questo viaggio, mi diedero aiuto.

Fotografia di Gino Ghioni

Un caratteristico villaggio Africano.

A Dakar mi furono particolarmente d'aiuto il Cancelliere dell' Ambasciata Celidoni ed il Padre Missionario Don Luigi; mi è grata l'occasione per inviare loro un memore saluto. Sempre a Dakar esposi una ventina di mie opere al Circolo Culturale Italiano; una buona parte vennero acquistate e questo fu per me nuovo ossigeno. Nella stessa città fui ricevuto dal Nunzio Apostolico. Fui pure ospitato per ben 45 giorni dal Signor Giovanni Messali, un bresciano ottimo meccanico colà residente che mi rimise in sesto il motorino bisognoso dopo tanta strada di una revisione. Durante la mia permanenza in quella bellissima città chiamata dai francesi la "Seconda Parigi"  ebbi modo di osservare anche la gente del luogo che aveva un portamento straordinariamente bello, tale da suscitare la viva ammirazione da parte di un artista.

Oltre che essere notevoli per la loro bellezza fisica, i Senegalesi sono veramente amichevoli e sinceramente ospitali e ciò mi portò a frequentarli assiduamente; mi legai particolarmente con vecchi e bambini. Mi trovai spesso con studenti e giornalisti con i quali mi piaceva discutere animatamente e appassionatamente di vari problemi e, attraverso questi incontri, sentii la loro viva ammirazione per l'Italia e gli italiani, in modo particolare per quelli là residenti che stavano lavorando in numerose imprese per conto del governo Senegalese. Sono particolarmente grato a tutti quegli amici Senegalesi per merito dei quali ho potuto meglio comprendere la loro vita, le loro speranze ed i loro ideali. Ho anche riportato, come mia impressione, che l'africano ha ancora bisogno dell'aiuto dell'uomo bianco e sopratutto dell'italiano; infatti durante questa mia permanenza in Africa, mi sono convinto che i nostri compatrioti possono emergere in quasi tutte le attività e vengono accettati e valutati per la loro operosità e ingegnosità.

Attraverso successive varie tappe raggiunsi la Gambia da dove mi imbarcai per Freetown nella Sierra Leone. Non sempre il mio viaggio si svolgeva in maniera tranquilla; incontri, anche avventure spiacevoli, come quella che mi accadde mentre dal Senegal raggiungevo la Gambia. Durante l'attraversamento di una zona boscosa fui assalito da un branco di scimmie che si buttarono sul mio motorino infuriate; ebbi un istante di terrore; ma Tori, il mio cane, si gettò come un fulmine addosso ai quadrumani ed ingaggiò con essi un furioso combattimento; lo scontro tra il Doberman e le scimmie fu tremendo e appena si dissipò il polverone vidi che Tori ne aveva abbattute quattro o cinque e tornava verso di me trascinando un cadavere. Non fu solo questa l'occasione in cui Tori si comportò bravamente. Durante l'attraversamento dei villaggi mi accorsi di suscitare l'attenzione degli abitanti, il più delle volte per pura curiosità; in una zona, mi sia concesso di non nominarla, durante il mio passaggio fra le case scoprii che il comportamento degli abitanti non era amichevole e, in breve, mi trovai circondato da una massa di gente che mi toccava e scuoteva. Capii chiaramente che la loro intenzione era quella di impossessarsi delle mie cose e del furgoncino; così decisi di sguinzagliare il cane il quale ringhiando ferocemente, tenne a distanza di sicurezza la folla e potei pertanto riprendere la marcia. Stupito per il fatto che bastasse un cane a tenere lontano tutta quella gente, per di più armata, seppi, in seguito, che l'africano ha una paura ancestrale del cane dell'uomo bianco soprattutto se del tutto nero come lo era Tori che in questo frangente si meritò l'appellativo di "Fulmine nero". Altre volte, la simpatica bestia, mi giocò dei tiri birboni, come quella volta in cui approfittando di una mia distrazione si mangiò un chilo di carote che avrebbero dovuto essere la mia cena.

Che animale simpatico! Ne conserverò sempre un caro ricordo. Tori mi fu sempre fedele compagna di viaggi; a volte compiva lunghi tratti di corsa accanto al mio motofurgone e le uniche distrazioni che si prendeva durante le sue.... passeggiate erano delle scorribande tra i greggi incontrati lungo il cammino. Mi fu indispensabile nei momenti più faticosi del Raid; fin dalla traversata della Spagna quando incontrai le prime faticose salite mi fu utile per spingere e tirare il motorino. Purtroppo fui costretto a lasciarla in buone mani, all'impresario bergamasco Santo Savoldelli sposato ad una bresciana.

Proseguendo il mio intinerario arrivai via mare, dalla Gambia a Freetown nella Sierra Leone, dove rimasi per più di un mese lavorando al restauro di una vetrata in una Chiesa Metodista.

Constatai come a Freetown non mancasse il lavoro per un artista; infatti avrei potuto lavorare per almeno tre o quattro anni, ma seguendo il mio impulso proseguii il viaggio. In parte costeggiando il continente con imbarcazioni e in parte proseguendo la marcia su strada, raggiunsi il Sudafrica e più precisamente arrivai a Città del Capo dove rimasi per quattro o cinque mesi di seguito lavorando assiduamente. A questo punto mi sembra doveroso ricordare il buon comportamento del mio Gerosa 48 cc. che superò brillantemente migliaia di chilometri su strade o piste d'ogni genere; l'unico inconveniente che dovetti lamentare fu la rottura delle sospensioni a cui ovviai con mezzi di fortuna inserendo fra i canotti un pezzo di legno e successivamente una barra di ferro alla quale avevo precedentemente appeso a mò di gran pavese, le bandiere dei Paesi fino ad allora attraversati. La distanza giornaliera che riuscivo a coprire era di circa 100 chilometri soltanto e ciò dipendeva in modo essenziale dallo stato disastroso delle strade.

Fotografia di Pincus David, Johannesberg

SUDAFRICA: a Cape Town Rocky Marciano, il compianto pugile, vuol posare in sella al motorino di Gino Ghioni.

Durante il mio soggiorno in Sudafrica fui anche a Johannesburg e Pretoria. In queste città dipinsi numerosi quadri per i locali Clubs italiani e così riuscii a guadagnare una somma sufficiente per il resto del Raid. Incontrai anche il Professor Vincenzo Sagnelli di Napoli che insegnava Belle Arti alla locale Università e che si era fatto un nome  soprattutto come mosaicista. Egli mi volle con se a Durban per una ventina di giorni e mi propose di rimanere come suo aiuto, offerta alla quale dovetti a malincuore rinunciare. Così il tempo trascorse veloce e giunsero le feste natalizie che trascorsi a Città del Capo ospite di un simpatico gruppo di siciliani. Questi ultimi mi vollero avere come invitato d'onore al loro pranzo di Natale durante il quale fu servito il nostrano cocomero o anguria come avvenimento veramente eccezionale.

Malgrado tutte le gentilezze ed amabilità usatemi non riuscii a dissipare la malinconia della lontananza dalla mia casa, aggravata anche dal fatto che da lungo tempo non avevo notizie dei miei genitori. Il Sudafrica mi lasciò un'impressione famigliare e mi sembrò quasi una nuova Europa ; forse fu per questo che mi sentii al meglio delle mie possibilità pittoriche e mi dedicai ad illustrare particolarmente gli aspetti storici di questa nazione.

Venni ricompensato perché parecchie di queste opere furono acquistate dai Sudafricani stessi che riconoscevano in esse le passate imprese dei loro avi. Nel periodo della mia permanenza in Sudafrica accadde un' avvenimento che si può ben dire commosse il mondo intero: il primo trapianto cardiaco da uomo a uomo per opera del Prof. Barnard. Tutta la Nazione Sudafricana esultò per questa prestigiosa impresa scientifica ed io pure ne rimasi particolarmente commosso e decisi di dedicare a questo avvenimento storico una mia "tela".

SUDAFRICA: la prima pagina del quotidiano "The Cape Argus" edito a Cape Town riporta notizie sul trapianto effettuato dal professor Barnard. In quel periodo Gino Ghioni era a Cape Town dove ha eseguito il ritratto del celebre chirurgo.

Incontrai in quei giorni ex prigionieri italiani che erano stat internati in un campo detto "Zona senz'acqua" ed in particolare mi trovai con il bresciano Aldo Soldi. Mediante il suo aiuto visitai parecchi Cimiteri dei nostri Soldati ed altre zone legate alle loro tristi vicissitudini. Questi italiani portati colà da vicende belliche si sono ormai, dopo tanti anni di laboriosa permanenza, perfettamente integrati col resto della popolazione e mediante il loro lavoro universalmente apprezzato continuano a tenere alto l'onore ed il prestigio della Patria lontana ma mai dimentica.

Continuando la mia peregrinazione, lasciai Pretoria ed arrivai a Salisbury, capitale della Rhodesia dove venni intervistato dalla locale televisione. Quindi conobbi un simpatico ragazzo romano che, dopo aver lavorato alla costruzione della famosa diga di Kariba, aveva aperto un ristorante tipicamente italiano. Se mi fossi fermato in Rhodesia, per me sarebbe stata una miniera d'oro; le mie quotazioni raggiunsero infatti, con estrema facilità, le 500.000 lire. Proseguendo arrivai nella colonia Portoghese del Mozambico quindi, attraverso la Tanzania, arrivai nel Kenia. La mia intenzione sarebbe stata quella di arrivare in Etiopia, ma ne fui impedito dalle locali autorità; perciò da Mombasa mi imbarcai e, attraversato l'oceano Indiano, sbarcai sempre seguito dal mio fido motorino a Karacki nel Pakistan. Arrivai, finanziariamente parlando quasi al verde, infatti le mie sostanze ammontavano a solo 10 dollari. Quando giunsi imperversava in quella parte del Pakistan una epidemie e le autorità pakistane mi imposero di raggiungere immediatamente la Persia per via aerea o di ritornare indietro. Fortunatamente fui aiutato dal Dott. Pierluigi Monteverdi, titolare della locale concessionaria Fiat, il quale si prodigò con tutti i mezzi per farmi ottenere il permesso di continuare il mio cammino attraverso quella nazione; inoltre, comperando due miei dipinti, rinsanguòle mie esauste tasche. Attraversai il Pakistan toccando Lahore, raggiunsi Rawalpindi e nuovamente mi imbattei in un altro cortese funzionario della Fiat che mi diede ottimi consigli per valicare il Kiberpass. Questa zona infatti gode di un regime di semi-autonomia ed è abitata da focose tribù montanare i cui membri hanno abitudine di circolare armati fino ai denti, sia pure vecchi fucili e pistole di superato valore bellico. Non sempre questa gente è animata da sentimenti amichevoli verso gli stranieri, ma il sottoscritto potè cavarsela con una sommaria perquisizione personale che finì anzi in una burla. Potei quindi raggiungere l'Afganistan. Percorrendo circa 60 chilometri su uno splendido altipiano raggiunsi Kabul, la capitale, che è posta a quasi 2000 m. d'altitudine. Rimasi affascinato dallo splendore delle imponenti cime montagnose che la circondavano ed anche fui bene impressionato dagli abitanti, semplici, ma anche onesti e gentili. al mio arrivo nella capitale Afgana ebbi un incontro con il sacerdote Don Angelo che mi indirizzò all'Ambasciata Italiana dove fui accolto in modo assai cortese dal Console Bavicchi e dall'Ambasciatore Di Sanfelice. Essi, constatato che il mio abbigliamento, dopo tanto cammino e tante avventure, era ridotto ormai in condizioni assai misere, si premurarono di fornirmi indumenti nuovi e più presentabili cosicchè uscii dalla nostra Sede Diplomatica nuovo.... di zecca. Una sera i Diplomatici Italiani mi invitarono ad un ricevimento e, giunto in un palazzo dove in una sala vidi numerosi membri delle altre ambasciate straniere ed alte autorità locali, mi colpì particolarmente un personaggio che vidi al centro dell'attenzione generale e seppi da un italiano, che quell'uomo dalla figura imponente e dall'espressione simpatica, era niente di meno che il Re dell'Afganistan Mohammed Zahir Shah.

Ad un certo momento, durante la serata, sempre dai miei amici italiani fui presentato al Generale Alì. Questo Generale era tenuto in gran stima e considerazione dal Re; dopo una cordiale conversazione, il generale mi propose a bruciapelo, di eseguire un ritratto di Sua Maestà; rimasi stupito e riconoscente per l'alto onore fattomi, accettai e il Generale mi condusse alla presenza del Re. Egli fu molto cortese ed affabile con me e mi intrattenne chiedendomi dettagli e ragguagli sul mio viaggio, domandandomi come avessi fatto a raggiungere il suo regno. Quindi mi ringraziò anticipatamente per l'omaggio artistico che mi ripromettevo di presentargli. Fu così che mi misi al lavoro approfittando di alcune fotografie del Re che il generale Alì mi aveva messo a disposizione. Pochi giorni prima di lasciare l'Afganistan terminai il ritratto del Re e, sempre tramite il cortese Generale lo feci recapitare al Re. Sua Maestà mi ringraziò con una lettera autografata contenente oltre a lusinghiere espressioni sul lavoro, anche un invito per un soggiorno nell'Afganistan in qualità di suo ospite.

Il Re dell'Afganistan
Mohammed Zahir Shah
 
 
AFGHANISTAN: attestato di amicizia e di stima rilasciato a Kabul dal Generale Mourad Ali Nasserie.

Avrei intenzione, nel futuro, di accettare questo onorifico invito per girare dei documentari artistici sulle zone più interessanti del regno.

Lasciai questo ospitale paese e attraverso Herat raggiunsi la Persia. Ora che il viaggio volgeva verso la parte finale avevo fretta, volevo bruciare le tappe, avvicinarmi all'Italia, alla mia città, ai miei genitori. Raggiunsi così Teheran capitale della Persia. Qui incontrai con mio piacere un famoso artista locale, Lase Tabatai, il quale godeva di grande prestigio in patria.

Questo artista aveva soggiornato a lungo per studio in Europa rimanendo affascinato in modo particolare dall'arte italiana. Egli fu molto interessato al mio progetto riguardante l'Associazione A.I.D.A. e promise di mantenere i contatti con me. Dopo un breve soggiorno persiano, durante il quale dipinsi qualche quadro, raggiunsi il confine con l'Irak. A Kerman offrii ospitalità, sul tettuccio del motorino, ad un ragazzo giramondo "beat" e attraverso una tappa veramente spaventosa raggiunsi Bagdad. Ho detto spaventosa perchè in quelle regioni ed in quella stagione, l'estate, il caldo raggiungeva temperature altissime. Il mio occasionale compagno rimase costantemente avviluppato in una coperta bagnata mentre io soffrivo le pene dell'inferno; la pelle mi si screpolava tutta sotto i raggi del sole infuocato e la guida del mio mezzo era particolarmente penosa, dato che le parti metalliche del "Gerosa" scottavano maledettamente; tutto ciò su una strada deserta ai lati della quale si vedevano i resti di numerosi animali completamente disidratati. Come Dio volle, giunsi infine a Bagdad. Qui rimasi alcuni giorni ospite del locale Circolo Italiano. Fui aiutato cordialmente dal Nostro Ambasciatore, ed io cercai di sdebitarmi offrendogli qualche mio dipinto. Percorsi velocemente Giordania, Libano, Siria, Turchia, Grecia ed Jugoslavia giungendo finalmente al confine Jugo-Italiano di Gorizia. Rientrando in Italia il mio solo pensiero fu quello di bruciare le tappe per ricongiungermi con i genitori di cui sentivo moltissimo la mancanza e bramavo riabbracciare. Feci tappa a Pozzo di Codroipo, un paesino friulano, ospite dei miei zii. Sostai due giorni per riposarmi e per me furono due giorni d'intensa felicità. Ero felice d'essere di nuovo in Italia, della mia impresa, di me stesso, di tutto in una parola. Ripartii e, viaggiando anche nelle ore notturne, giunsi a Verona ove feci un riposino di qualche ora e poi via per l'ultima tappa!

Fotografia di Gino Ghioni

IRAQ: fedeli maomettani in preghiera a Aghdad

L'ansia di rivedere i miei cari non mi dava tregua e sembrava si trasmettesse anche sul mio "motorino". La strada era percorsa il più velocemente possibile, compatibilmente al mezzo meccanico, finchè giunsi nelle vicinanze di casa. Vidi un amico che mi fece cenno di fermarmi, ma io tutto preso dalla gioia e commozione non gli diedi retta. Giunsi sulla porta di casa, bussai una, due volte, ma nessuno si affacciò al balcone; riprovai freneticamente altre volte ma la porta rimase sempre chiusa.

Ad un tratto mi sentii chiamare alle spalle dal proprietario di un'osteria posta difronte a casa mia il quale mi disse: "Luigi, ma lei non sa niente dei suoi?"  "No" risposi "dove sono andati ad abitare?". Allora l'oste, un pò tergiversando, mi indirizzò presso una comune conoscente dicendo che quella donna mi avrebbe dato notizie più precise; corsi immediatamente da lei. Appena la vidi le domandai che cosa fosse successo; la donna, capendo che da molto tempo non avevo ricevuto notizie da casa, mi disse angosciata che entrambi i miei genitori erano morti. Rimasi a questa notizia, dapprima quasi incapace di comprenderla; poi mi misi con la testa appoggiata ad un muro e piansi sconsolatamente. Seppi, poco dopo, che solo mia madre era defunta mentre mio padre si trovava gravemente infermo all'Ospedale.Inforcai ancora una volta il "Gerosa" e raggiunsi il Cimitero dove riposava la Mamma. Sulla sua tomba deposi piangendo qualche ricordo del mio viaggio un Crocifisso che un monaco m'aveva donato in Libano ed una bandiera tricolore datami dagli Italiani in Sudafrica sulla quale vi era scritto "Per la mia Patria" ed "A mia Madre"". Poi andai a trovare mio padre; purtroppo anchegli, qualche tempo dopo morì.

GIOVANNI DI MARZINIS

Fotografia di Alabiso

BRESCIA: Gino Ghioni appena è rientrato e amici gli sono attorno.
 

Fotografia di Alabiso

S.BARTOLOMEO: Gino Ghioni inginocchiato sulla tomba della madre morta durante il suo lungo viaggio.
 

Fotografia di Giulio Mottinelli, Gussago.

DI MARZINIS chiede a Gino Ghioni particolari della sua avventura.
 

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